GIUDIZI sulla POESIA
Da “Città di Vita”, Anno XXVIII, n. 5:
Angelo Di Mario, I giorni sono le piazze, Seledizioni, Bologna
1972:
Questa poesia è l’espressione dello
stupore quasi raggelante di fronte alle infinite possibilità
esistenziali aperte davanti a ogni uomo, le quali, però si
risolvono in un cammino inspiegabilmente unico, in cui gioie, solitudine,
pene e memorie sono personalissime e perciò stesso incomunicabili;
della certezza penosa che mai ci potremo rendere pienamente conto
di quello che sia questo nostro esistere; della coscienza gioiosamente
stupita che, nonostante la sua piccolezza e la limitatezza delle
sue esperienze, apparentemente vaste in se stesse, l’uomo
è vivo; della reazione alle evidenti ingiustizie sociali.
Trapela da questo volumetto un invito a un più attento contatto
con la realtà e a una più accorta diretta indagine
della medesima, lasciando da parte la scienza inutile e fossilizzata
dei cattedratici, e un incitamento all’amore.
L’architettura di questa poesia poggia su una tecnica risultante
dall’accostamento di visioni (la visionarietà è
una qualità precipua di questo A.) in apparenza slegato (tecnica
e disposizione, si direbbe), ma fantasticamente connesso, e dalla
rappresentazione di tumulti che finiscono in echi lontani e smorzati.
Ferdinando Alfonsi
Ad Angelo Di Mario,
trovo qui sul mio tavolo, tra le carte, la pagina a lei dedicata dalla
“Nuova gazzetta di Calabria”. Sono in ritardo, ma non
voglio che rimanga senza una mia affettuosa testimonianza sulla serietà
del suo lavoro poetico. Leggo tanta, troppa poesia, ma questa è
fresca, meditata, piena di pensiero. La ricerca formale è costante,
il linguaggio mai scelto e usato a caso.
Mi congratulo con lei e gradisca l’augurio cordiale di buon
lavoro.
Suo
Dino Carlesi
Presente anche in molte antologie e segnalato o premiato in numerosi
premi, non è soltanto costante, ma si distingue anche per
i mezzi espressivi rivoluzionari e come portatore di nuovi contenuti
o, almeno, di nuove analisi sulla “verità circolare”.
In questa antologia presentiamo l’incipit di un suo interessante
poema sulla condizione umana che sta per essere pubblicato.
Da “Poeti a Gradara” (Antologia 1970/’71)
Prefazione
Forse la moda cancella la vera personalità
dell’uomo. Di certo riesce a spostare le sue intenzioni sociali.
Non per niente i carrozzoni pubblicitari sono tali appunto per il
fatto che sono in grado di smuovere quell’apatia che a volte
condiziona l’esistenza della nostra collettività. Quest’anno
tutti parlano di Alessandro Manzoni. Perché? E’ logico,
ricorre il centenario della sua nascita. Fino a ieri ci si ricordava
appena che “I promessi sposi” era un romanzo guida,
che don Abbondio poteva rispecchiare l’indecisione e la viltà
del nostro secolo, che il cardinale Federico ha lo stesso sguardo
della società dei consumi: avido ed insaziabile.
In questo vorticoso mulinello, la nostra ricerca critica sulla poesia
non poteva tralasciare un aforisma del Manzoni: “A chi dicesse
che la poesia è fondata sulla immaginazione e sul sentimento
e che la riflessione la raffredda, si può rispondere che
più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo,
più si trova poesia vera”, al quale vorremmo aggiungere:
La fonte d’ogni poesia è il sentimento profondo dell’inesprimibile”.
Da questi brevi aforismi, il discorso sulla poesia di Angelo Di
Mario diventa più eloquente e meno complicato.
Angelo Di Mario in “Un giorno di radici” mette a nudo
una ricerca spasmodica di stati d’animo che giocano di buon
grado con il sentimento e la cruda realtà. C’è
quella naturale predisposizione per l’introspezione, per la
denuncia, per la parapsicologia. E’ un fattore importante
conoscere il nesso logico che intercorre tra le singole composizioni,
perché tutte le poesie risultano concatenate con un leggero
filo conduttore che si dipana attraverso sentimenti e aspetti poliedrici
della nostra epoca.
Dalla riflessione più acuta Angelo Di Mario sviluppa un discorso
lirico caldo, in cui l’umanità, con i suoi tanti risvolti
sociali, ribolle di una luce che non è intermittente ma continua,
accecante, imprevedibile. Tutta la sua poesia, del resto, contiene
in embrione questi risvolti, queste sfumature, questi passaggi.
Costruire una piramide da cui spaziare sul vuoto del mondo può
essere facile e difficile al tempo stesso. Costruire un organismo
poetico che solidifichi in quadro dell’uomo è senz’altro
difficile, specialmente oggi che tutti siamo presi dalla meccanica
rivoluzione del sesso, della macchina, della droga. La poesia e
la filosofia – perché il poeta è anche filosofo
– rimangono così isolate, addirittura dimenticate,
tanto l’uomo crede nella pochezza della propria fantasia,
del proprio buon senso, della propria coralità psicologica.
Angelo Di Mario, contrariamente a quanto avviene per altri scrittori
che pure vanno per la maggiore, rifugge da facili accostamenti con
la dinamica sociale attualmente in atto e con versi forti butta
sul tappeto i problemi più vicini al suo mondo, che naturalmente
diventa il nostro mondo, quel mondo in cui ogni giorno cerchiamo
di trovare un po' di spazio per non morire e per vivere un po’
dignitosamente.
Notiamo così l’evanescenza della realtà (“Ho
appreso a salire spirali d’ansia, - stringendo mani ventose
e labbra nivee”), il desiderio di rimanere ancorato al passato
(“Ho sentito chiamare - lungo i muri, - la voce era attaccata
– alle foglie notturne – e non moriva, - come d’autunno
le vele delle nebbie – umide di ricordi”), il calco
dei giorni non dimenticati (“Il mio paese era cima e rudere…-
ma se ci torni un giorno di radici, - e rapprendi le lacrime in
un cristallo di sorriso, - nessuno si accorgerà che stai
raccogliendo – elemosine grigie, dentro fermi gridi”),
la paura del domani (“Metti via la macchina – soffoca
la radiolina – qui c’è l’erba accòstati
– qui c’è l’ombra acquiétati –
qui c’è l’acqua purìficati”…
Il dilemma del nostro futuro con tutte le incognite che racchiude
si sviluppa in parte dell’intera raccolta “Un giorno
di radici”, tanto che a volte ci troviamo come tuffati nell’aria
a raccogliere manciate di cielo e di luce, senza quell’eterno
spauracchio dello smog, dell’inquinamento, del rumore.
“La natura ride con le braccia alzate”, ci attende quasi;
sta a noi ritrovarla e comprendere le sue necessità.
La poesia di Angelo Di Mario fatta di semplici addentellati e di
tanti sottintesi vuole essere un invito alla riflessione, a ritrovare
nel silenzio di noi stessi la gioia di vivere e di sognare, perché
“nei poeti sogna l’umanità” (Hebbel) e
“il mondo è proprio bello da guardare, ma specialmente
quello dei poeti” (Goethe).
Fulvio Castellani
Premio Gradara Silloge n. 4, 19 novembre 1971
Caro Di Mario,
rileggo il Suo rivoluzionario poemetto, o straziante poemone, sulla
condizione umana, e Le sono vicino nel guardare impietosamente le
cose; e letterariamente apprezzo la Sua capacità di far divenire
l’autobiografia una verità circolare, cioè un’analisi
che investe l’universale.
Quanto ai Suoi mezzi espressivi, anch’essi rivoluzionari,
sono tali che bisogna accettarli o respingerli in blocco.
Noi, della Todariana Editrice, nel dilemma di quest’opera
in cui si discute se significazioni nuove possano fare scaturire
nuovi mezzi espressivi, o viceversa, li accettiamo, non soltanto
per lo spirito giovanile che ci attribuiscono e che magari abbiamo,
ma anche per la precisa convinzione che il dilemma di cui sopra
non è esattamente biforcuto, cioè o così o
in quell’altro modo e basta, ma è piuttosto un dilemma
poliedrico e variegato, che tensioni letterarie come la sua, possono
sospingere.
Perciò sarei anche lieto di includere nei risvolti
di sovraccopertina dell’eventuale pubblicazione, anche sue
dichiarazioni letterarie che la pregherei di farmi avere.
Presenteremo alla critica il Suo volume come una “sfida”,
per così dire, con l’intenzione di suscitare polemiche
fattive; che significa anche tentare di farle conseguire tutta la
notorietà che sarà possibile, e che lei certamente
merita.
Teodoro Giùttari
12 novembre 1973
Direzione Letteraria EM/ TG
Relazione
Oggetto: Quattro raccolte di poesia di Angelo Di Mario
Di Mario è un vero poeta che ha raggiunto una
maturità di linguaggio e una sicurezza di moduli veramente
notevoli. La sua poesia ci fa molto pensare a quei grandi poeti
un po’ naif e un po’ avanguardisti – e chissà
perché ci tornano alla mente tipi come Lorenzo Calogero-,
che forse costituisce il vero scheletro della poesia italiana dopo
l’isterilimento del classicismo e soprattutto del “retorismo’.
A parte la raccolta “A più voci”,
troppo sperimentale e non risolta (che scarteremo), indubbiamente
“Maestro elementare” (un poemetto molto originale),
“Un giorno di radici”, e “i giorni sono le piazze”
testimoniano di una raggiunta e personale maturità poetica.
Più che poesie, specie “Un giorno di radici”
e “i giorni sono le piazze” sono poemetti, tant’è
vero che sono divisi dal numero romano. Consigliamo l’Autore
di considerare l’opportunità di trarre dalle tre raccolte
suddette, opportunamente selezionate, il suo percorso poetico. Tale
opera troverebbe la sua giusta collocazione nella nostra più
prestigiosa collana di poesia detta “La Scacchiera”.
In questo caso bisognerebbe trovare un titolo generale
per l’opera riservando i titoli attuali alle sezioni.
Da “La nuova Gazzetta di Calabria” Anno XI – N.
3.4 (nuova serie), Cosenza , 30 maggio 1973:
ANGELO DI MARIO: “I giorni sono le piazze”. Premio
Nazionale “Pagina d’Oro” per inediti 1970. Seledizioni
– Bologna
Pubblichiamo la prefazione dell’Editore:
Quando, in veste di Presidente del “Premio
Nazionale Pagine d’Oro”, ho dovuto stendere la motivazione
per il lavoro di Angelo Di Mario giunto al primo posto, ebbi a scrivere”…
una raccolta di impostazione filmica, sulla quale intarsia una precaria
idea di mondo che spesso tradisce sarcasmo e caos, riscattata da
un personale estro linguistico ed avvalorata da una chiara consapevolezza
delle proposte letterarie contemporanee”, ero rimasto certamente
colpito dalla prima lettura di un’opera che a tutta la giuria
era apparsa meritevole – in assoluto – di primo premio.
Trascorso l’entusiasmo iniziale, sia dell’addetto ai
lavori che del presidente di giuria, mi sono riletto “ I giorni
sono le piazze” e m’è sembrato che a Di Mario
fosse stato fatto un gran torto: quello, soprattutto, di non aver
messo in luce la visionarietà del suo far poesia.
Perché, prima di ogni altra congratulazione, a Di Mario andrebbe
fatta questa: che, pur nella varietà degli argomenti, il
filo conduttore porta a considerare – sulla falsariga tracciata
dall’autore – un particolare tipo di ironia costruttiva,
ma quasi trafugata dall’iter quotidiano di un isolato che
si destreggia tra il caos dei condizionamenti di un habitat a prestito
e il suo “guardarsi molteplice”.
Benché attratto da una voce lontana o da un riso nell’aria
o dall’altalena delle ferite, sente di dover sprangare la
porta perché gli rimane la sola certezza dell’amore.
Comunque si esprima. I giorni infatti sono le piazze, le strade,
i campi, dovunque si viva; ma dove tutto è dato in cambio
di qualcosa, tanto al giorno. Di Mario giunge alla conclusione rovente
che questo è il tempo duro dove non si possono trovare parole
se non con strascichi di rimorsi e dal quale gli uomini, spaventati,
accettano come doni le distanze e i dolori.
Il tempo che non muta mai, il viso della moglie e dei figli (raffermi
in una chiusa meraviglia) che diventano lo specchio di un presente
assoluto dentro il quale mestizia e gioco mimano porzioni di stelle
e brandelli d’infanzia e improvvisi turgori, sembrano soltanto
il medium espressivo di una più interna provvisorietà.
Perché l’uomo di Angelo Di Mario è un supersalariato
in partenza (“gli comprano le mani”), una tessera di
un mosaico al quale è impossibile sottrarsi, una girandola
boccaccesca sulla melodia smagante di una pianola da paese.
In questa ecologia della sconfitta, la natura dell’universo
è minima e, ad un tempo, immensa come gli “archi alti
dell’aria”; il bianco dei silenzi come un’oscura
madre con la bocca rappresa di parole non dette; il tempo che c’è
da secoli, fossilizzato nell’irrisione.
Ma non bisogna confessarsi niente né riconoscersi impotenti.
Non vale.
Alla fine dei giochi, uno solo rimane: la follia dell’amore.
Franco Tralli
Angelo Di Mario – “I giorni sono le piazze” –
Seledizioni 1972; “Proiezione fossile” – Pellegrini
Editore 1972
La poesia di Angelo Di Mario è certamente un
esempio di equilibrio lirico ed immaginistico. I “verdi smeraldi”,
i “freschi odori”, le “ondeggianti peonie di grazia”
del Sud fermentano il suo mondo poetico pregnante di sensualità.
E’ per questo che la poesia assume accenti dannunziani e lorchiani,
è ricca di quadri poetici. L’uomo di Di Mario condivide,
a livello sensoriale, quale pietra o albero, l’armonia del
globo. E’ antico nella sua aspirazione catartica, rifiuta
la vita quotidiana anche se soffre a livello individuale e sociale.
La stupefatta ammirazione della creatura colpita da “mani
soffici” che affiorano “nel vento delle risate muliebri”
si trasforma allora in angoscia strisciante nei traumi da pozzi
sbiancati di tacita insonnia.
Il paesaggio scompare, lascia il posto ad “asprezze socievoli”
“in piazze e tuguri, “prigioni e castelli”. L’essenza
della vita sta in questa angoscia, che nutre una poesia protestataria
di accenti aspri ma raccolti. Essa è la “proiezione
fossile” dell’uomo libero, come gabbiano, oppure schiavo,,
trafitto da “roventi chiodi”. Creatura che vive e si
sente vivere. Tutto questo si trova nei due volumi di poesie di
Di Mario. Essi sono la testimonianza di una voce pacata, sempre
sofferta, quindi sincera.
Mimma Forlani
ANGELO DI MARIO: “La parola alta e muta”, Ed. regione
letteraria – Club degli Autori – 1967.
Vibra nella lirica di Angelo Di Mario una strana
nota di inconsapevolezza sul futuro dell’Umanità, un
senso acuto di angoscia come l’attesa di qualcosa di sconosciuto
che non si sa come e quando e pure deve venire. A vantaggio o a
danno dell’Umanità?
Il poeta sembra chiedersi questo e, nella sua impossibilità
a dare una risposta al misterioso quesito, sembra volersi isolare,
a forza, contro tutte le leggi della natura, della vita e della
morte, per potere assistere, anche se impotentemente, all’arrivo
di questa suprema incognita ed ai suoi sviluppi sull’avvenire
dell’uomo.
“Discreta e sottesa / ama e si rompe / in corsa lungo il vento
precipite / dietro le zolle di turgore e mare / sull’ago che
serra le bocche di silenzio / e le stelle che non possono incontrarsi,
/ dato il fuoco, dato lo spazio perenne”.
Spettatore apparentemente impassibile e freddo, il poeta porta in
sé racchiuso il cosmico dolore per incomprensibili destini
che gravano su noi tutti:
“Primavera sconvolta, / incurvata sopravviene. / Qualcosa
volteggia atterrato / nel mio cuore”.
E, insieme, la tensione psichica per una schopenaueriana insoddisfazione
della volontà:
“ La parola alata e muta / nel giorno fermo, sempre. / Moriamo
entrambi fermi / sopra due rami distanti”.
Nella coscienza di non potere definire i motivi di questo inevitabile
destino, causato da desideri umani e causa di nuovi e più
prorompenti desideri, tuttavia egli vuole continuare a credere nelle
facoltà dell’uomo, questo essere nato dal nulla, per
una favorevole combinazione di elementi anche non casuale, è
capace di sopravvivere spiritualmente a qualunque sciagura morale
che tenda ad abbattere ogni sua concezione mentale acquisita attraverso
l’esperienza di secoli: “Sì” di tutto “No”
di nulla, perché – in ciò che si è, s’ha
da credere”. Senza ombra di dubbio la poesia di Angelo Di
Mario ci conduce, inevitabilmente, a riflettere, a cercare una giustificazione,
a trarre delle conclusioni che rappresentino il diapason psico-fisico
di tutte le nostre facoltà. Si può studiare, a tal
proposito, la poesia XXIII che, per ragioni di spazio non riporto;
ma, in generale, ci si può lasciare trascinare dai gorghi
della poesia del Di Mario con la certezza di leggere non solo una
poesia originale, ma soprattutto una poesia che di moderno non ha
solo la forma bensì il motivo di essere.
Vincenzo G. Costanzo
ANGELO DI MARIO: “La parola alta e muta” – Ed.
“Regione Letteraria”, Bologna – 1967.
La poesia di Angelo Di Mario evoca una malinconica
cantilena dalla quale par nascere tutto il quadro in cui s’accampano
nel triste paesaggio, ognuno nella sua solitudine disperata, gli
uomini.
“… Un randagio di vento che agonizzi il tuo nome / oggetto
scaricato senza corteccia o impronta… / Il rifiuto della vita
procede inerte, / sulla bassa scarpata della nostra amarezza / il
cumulo enorme dei detriti sprofondanti…”.
E’ un ritmo cadenzato di monotonia dolente e cupa, di sapore
verghiano, dove il motivo esistenziale si intreccia, fondendosi
in un gioco serrato, col motivo dell’amore, che è qui
vaga bramosia di ignoto; l’accorgersi della incoerenza del
mondo visibile (“ il rauco stridere dell’assenza del
mondo ”) porta alla rivolta contro la condizione umana sofferta
e odiata, al tempo stesso. Se però Verga ci rileva come la
lotta sia già persa in partenza (infatti il destino individuale
coincide con quello storico della classe sociale a cui un uomo appartiene),
Di Mario rimane, si cala in una dimensione romantica, in cui l’uomo
in potenza si sente titanico, ma all’atto pratico è
vittima, poiché non riesce ad estrinsecarsi. Il suo subcosciente
vorrebbe vivere due vite opposte o nessuna, essere al tempo stesso
quello che si è e quello che si vorrebbe essere. Vorrebbe
sentirsi elementare, ma il contrasto tra una passionalità
primordiale e un intellettualismo a volte artificioso, glielo impedisce.
E in questo suo continuo altalenarsi è preda di crisi di
esaltazione e di depressione.
Ma la rivolta di Di Mario è manifestatamente di spontaneità
ed espressione compiuta della realtà di un sentimento profondo,
là dove il paesaggio si apre sulle forme più care
al poeta: sugli arenili, sulle acque, sui boschi, sulle estensioni
verdi.
“… Hanno tuniche campestri / l’erbe, hanno / infinite
reticenze / come i paesaggi del meridione / zittiti sotto il sole…
Così il rosso imperversa / per i balconi dell’alba
/ e lancia calici e aromi / nel verde folle d’azzurro”.
Ma è solo una pausa: il continuare a vivere, nonostante tutto,
è indifferente e il senso di accettazione delle cose indica
il segno più assoluto di questa indifferenza, il cui necessario
epilogo è la totale dissoluzione dell’individuo. Non
resta che “ ruggine e lotta senza nome”.
Malerte
ANGELO DI MARIO:
“La parola alta e muta” (Regione letteraria).
In questa sua ultima silloge l’autore sabino prova all’estremo
che la buona poesia à confessione sincera, mutazione del
mondo che geme dentro. Egli, malinconico per costituzione, esprime
scrivendo il suo sentire di creatura:
“ L’uomo corre assetato / per i deserti dell’acqua.
/ dentro gli trema un uccello / di tristezza e d’eterno”.
E ancora:
“ La pioggia di grigio / a un tratto alza sui campi / l’arcobaleno”.
Di Mario appartiene a quella fauna di vivi che cantano per non morire.
F. Boneschi
ANGELO DI MARIO, con il libro “Proiezione fossile” (Pellegrini
Editore), ha vinto il terzo premio “San Valentino” 1972
e il terzo premio ha pure conseguito nel concorso “Natura”.
A Di Mario vadano i nostri più vivi rallegramenti.
ANGELO DI MARIO, IL LIBRO, 1979 (Poema, XXVI canti)
Giorgio Barberi Squarotti, Torino, 24 agosto 1978:
Caro Di Mario, … mi scusi se non mi sono più fatto
sentire…..Ma, col favore dell’estate, ho potuto finalmente
leggere e meditare Il libro, che è un’opera di straordinaria
poesia, l’unica di così vasta ideazione e di così
splendida attuazione nel linguaggio e nella forma che io conosca
nel nostro novecento. Ella è riuscita a coinvolgere nel suo
discorso poetico realtà materiale e storia, politica e passione,
filosofia e scienza, come nei grandi poemi del passato. Sono rimasto,
dopo la lettura, sconvolto di ammirazione e di entusiasmo.
Credo che l’opera meriti di essere resa nota. Pensa di pubblicarla?….
Giorgio Barberi Squarotti, Torino, 27 novembre 1979:
Caro Di Mario, sono molto lieto che Il libro sia uscito. L’ho
riletto con estremo interesse e meglio ho potuto apprezzare il carattere
“totale” del poema, fra rappresentazione morale e splendide
evocazioni liriche, un’estrema dolcezza e l’acutezza
di un discorso grandioso di carattere etico e civile. E’ il
vero compendio poetico delle nostre sorti, nel male e nel bene;
e il linguaggio che elle usa è perfettamente adeguato, duttile
e vario com’è, all’assunto del poema dell’oggi,
quale regge Il libro ( che è anche un bel titolo, adeguato
all’opera: Il libro, la bibbia del nostro tempo).
ANGELO DI MARIO, I giorni, 1988.
DOMENICO CARA, Prefazione:
Etica delle passioni
(e sue istanze, isterie, oscuro erbario)
Sul de profundis dei giorni
L’infinito (poetico) di Angelo Di Mario riattiva costantemente
una propria pretestuale irrealtà, ritorna all’ombelico
del mondo, funziona come fantasia (poematica), misura l’amore
per le metamorfosi e la disponibilità all’intreccio
(narrativo e descrittivo) degli eventi ancestrali e remoti, su un’inesauribilità
imparata giorno dopo giorno (il “giorno” è un
topos dinoccolato e riflessivo che riaccetta la fiaba e il tumulto
individuale), anche attraverso la multilinearità della sua
scrittura di prima (1959) e di adesso (1987).
Dall’insieme l’atmosfera del sé espone una connaturale
testimonianza dell’emozione sospinta oltre un organico conflitto
di segni, e riemergente su strutture tematiche le più varie
e pulsanti: la foglia e la memoria, l’orologio e la nudità,
l’equilibrio e il germoglio, l’eterno e la quiete, la
pietra e la rosa, il diavolo e il camalente, la mannaia e l’istinto,
il cristallo e la nuvola, la terra e il vento, il deserto e un equipaggio,
l’acqua e la passione, la donna e lo sguardo, la luna e il
giallo, la notte e la canzone, il varco e l’orizzonte, il
papavero e la radice, e con essi una cospicua voluttà di
rapporti mentali, visualistici, direi scenici della parola, qua
e là una filigrana “ispirativa”, in altri punti
(di contatto) fluenza della vita umana che nel poeta trasmigra,
si assesta, o si altera, si dispiega, si muove tra il recupero di
paradigmi, proprio della liricità, e un messaggio strumentale
di istituzione del profondo o, meglio, della dinamica della (s)oggettività
possibile, mai segreta, né imprevedibile, o da escludersi
nel dettato degli anni arsi!
La sua vicenda aggregativa non è mai dissipabile, le ragioni
della fantasia non si separano da ciò che il modello reale
accoglie e –comunque- non si tratta di un profeta infallibile,
sebbene la materia ceda facilmente al riscatto di se stessa come
continuum sperimentale, trascrizione di maschera, colore della metafora
e uso in parte mutilo.
Tutto s’iscrive nel clima del vissuto, riesplorato, non direi
attraverso i traumi del sistema, ma una civile e automatica spontaneità,
in connessione con la paranoia del potere (la sua dialettica del
non) e di quel fiancheggiamento tutt’altro che gratuito di
plasticità dell’immagine del siamo, non siamo, di cui
è intrisa la situazione umana (e non soltanto poetica) di
tutto il Novecento, internato dai fatti storici in una buia notte
della continua ed ossessiva riscoperta, e di quell’ansare
ritmico, cardiovascolare della espressività, secondo gli
accadimenti, le dis/obbedienze, le usure di pazienza, le occulte
o aperte autodistruzioni.
Gli effetti materici hanno il massimo di elocuzione, gesticolano
nella lucentezza alquanto spettacolare, in cui il male non si rovescia
sul vuoto e – spesso – persiste, e in un nihilismo rozzo
e passivo, dal vivo dei contesti diversi e dalle estreme e folgoranti
(e sia pur occulte) tensioni.
La ricorrenza dell’ebbrezza
Così l’immaginazione occupa il vissuto (e il sopravvivente),
si libera dei propri tragitti su corruttibili parole, spazi disegnati
nella strofe, sensazioni costruttive a movente Apollinaire; su certe
rigidità di sintagma a uniformità tolemaica, senza
passione per il Sublime e senza lettura di pessimismo, ma indagando
il Tempo della quotidiana rinascenza, le tautologie sorprese in
uno stato di plurima distillazione (anche grafica), penetrando il
provvisorio, riempiendo di ritmi le ulteriori possibilità
del “canto”, manifestando peculiarmente contro la minaccia
alla vita di ognuno di noi e della sua frequenza ossidabilità:
“le strade sono lunghi echi / dove scorre sudore a grani /
dove le trombe della luce / annientano la voce dei respiri, / dove
la cicala si spacca di sete e la nuvola sbianca, / dove i desideri
piantano àncore / che subito tutti calpestano, / dove cresce
l’arida fame / d’incontrare qualche uomo, / dove l’amore
a testa bassa / si guarda le nude natiche; / dove si cerca un altro
dove”.
E, nella serie di interrogativi, nulla ancora si domina sia che
la prova diventi familiare, sia che l’ingegno riporti in strette
terroristiche la maschera della comunicazione ad ogni altra ambiguità
pretestuale, su messinscena amara o su divertiti emblemi di un rappresentabile,
ed eterno carnevale della società difforme.
La poesia non ha bisogno di codeste dionisiache determinazioni dello
scriba fuggente, o nascosto in limbi segreti e tristi del conformismo
attuale, e tanto meno dell’insistenza privata e pubblica delle
connotazioni spietate, prive di esatto codice e di richiesta documentale,
ma è una necessità d’autore proporre il dubbio,
l’allusività, la combaciante esperienza del conoscere,
anziché distaccarsi da tutto ciò e inventarsi aneliti
metafisici, astrazioni proiettate oltre le ardenti (e coerenti)
fiamme dell’esistenza.
Ed è così che la poesia (letta o non letta, che appare
ingrata per i suoi misteri e i suoi svolazzi, diafana o intrisa
di proficuo peccato) si estrinseca nella differenza da innumerevoli
linguaggi persecutivi, protesi alla conoscenza della gioia e del
dolore, delle solitudini adulte e delle folle e follie avvelenate,
quasi come atto sospeso di prefigurazione e anche di ritratto dell’inquietudine,
piuttosto che come un’antica e pur rinnovabile e ribaltabile
ebbrezza.
La vocazione alla creatività di Angelo Di Mario ne suggerisce
il gioco atroce, disquisitivo; racconta un uso e disuso del tempo,
della storia legittima, al di qua di ogni turgore utopico od odio
di fatto, ma su maniere dalla varia e variegata proclamazione di
humus, producendo alcune tracce di spettacolo visuale ma testimoniando
(comunque nell’intero e opimo progress) con una lingua di
spostamenti e di ironie, o di disincanti, nomadistica, la non esclusione
del cerimoniale in ogni atteggiamento della vita incompleta e fossile,
serena o barbara, nella dissonanza e – in ogni caso –
sostanza stravolta, in più orbite.
Toni di commiato di una generazione della fierezza
L’ideologia dell’oscillazione (nel testo) si assume
in più punti una valenza (e violenza, sia pur umorale) insultante,
dialettizzata, escretoria: “… e siccome stiamo in mezzo
/ vedo buco futuro / martello cervello / marito dito / pater nostro
che sei in Usa / che ci ami con le tue uova / che vuoi porle accanto
alle russe / come niente fusse / a iosa / uova / della morte / chiamate
ate / civile vile / difesa // niente cocotte a frotte / con slip
/ con topless / see enza enza / nuu de ude”, e dove l’opposizione
tralascia l’idoneità poeticistica per una sospesa e
chiaramente mimetica deglutizione d’un oggetto d’in(sapore)
politico a ritmo ed insofferenza popolare.
E continuando a documentare l’estasi del peggio, la rima e
l’allitterazione non “addolciscono i suoni” del
suo discorso, e i tempi e i termini dell’irrisione occupano
l’intera verticalità della pagina bianca, sostituendosi
a quell’infinito, a quella parola a più voci che trasuda
nei più vasti ritmi, la cui lucidità del senso è
tutt’altro che inapparente od elusiva.
E’ riconoscibile comunque l’extra essenzialità
della poesia per una intervenzione e conduzione di suasioni verbali,
di bagliori sortiti da quelle necessità e ragioni che non
hanno niente a che vedere con le generazioni presenti, sia pur nello
stupore contingente del consumo del mondo; una duttilità
specificamente filosofica che certo non congela la parola e, anzi,
la fa fluttuare con più forza, quasi per azione di pensieri,
per connotare (e sfuggire) gli inganni, i linguaggi controversi,
gli arbitri di lingua, gli svolazzi di finzioni, suppongo.
Angelo Di Mario quindi non trascura l’origine della condizione
da cui giunge la lusinga del linguaggio, e desidera applicarla all’esigenza
del suo spirito che costruisce una verità, e l’immagine
con la quale egli si accompagna per riscoprire il visibile e l’invisibile
nella percezione meno inesatta, per definizioni possibili, concetti
privati, fac-simili disquisitivi, per riattivare l’esistere
piuttosto che slittare su toni discendenti, dinanzi alla sostanza
dei vari enigmi regolati dalla sopravvivenza anche della poesia,
in una partitura della sua ciclicità contemporanea).
La struttura quindi è percepita come definizione (e linfa)
dinamica del verso; il corpo della voce si carica di movimenti,
di configurazioni testimoniali e campi semantici dall’aspetto
vitale che – tra l’altro – prolungano la memoria
e lo snodarsi di principi individuali, di suoni, pragmatie figurali
tenebrose, lunari, altre cupità del naufragio, ascrivibili
a materiali surrealistici, ovviamente intrisi (e nelle capacità
traumatiche) della collettiva tragedia!
Nel clima prospettato dal poeta, non manca qualche giglio, qualcosa
di scorrevole e di terso; ma non si tratta di felicità sia
pur provvisoria o arcana, ma di una misura improvvisa di rendere
meno difficile il calco del discours, o sconcertante, e della medesima
modernità (proprio nel circuito delle s/consolazioni e degli
stessi duttili gridi).
Etimologia come orgia e perpetuo spazio (della forma)
Nella medesima gamma delle fatue distrazioni cosmiche, di giochi
assorti, di ciò che delira in un contesto di progettazione
poetica, in aloni, sottintesi, rese formali, etimologie perscrutabili
ed auscultanti nella loro scientificità di formulazione e
di lingua, ancora l’infinito si riproduce in più cristalli,
ardori, ansiti luminosi, intride “l’ombra folle”,
per dirci tutto (o molto) dell’uomo, scoprire i suoi chiodi,
le sue corolle, ciò che è brivido opaco quando “l’occhio
fisso sulla petraia” identifica una diversa realtà.
Ma l’inerzia del poeta fissa più àmbiti, luoghi
dell’evanescenza e del sospetto, scava fisionomie dirette
e indirette, riammette sentimenti nell’inerzia e nelle varianti
del fare poetico, i veri lutti, ciò che lampeggia nella tenebra,
o parla in un angolo in bisbigli: “Il giorno sedeva accanto
alla morte, / rotolando foglie con ironia; / si udivano rapide lontananze
/ sfogliare le acque in lento cadere; / prima quietamente, come
lo scroscio / del grano, ancora intimo, prima / che appariva lento
il nucleo del verde, / la chiara chioma, e ancora più oltre
/ il tinnio cieco, cuore di nuvola; / poi accadde d’un tratto
il nero / acuirsi, tutto il nero e il cosmo, / tutta la tenebra
esplose del mondo”.
E in codesta fiction poematica, in più punti ossimorica,
depistante, su prodigiosa coscienza della realtà, il vaneggiamento
fa parte di un empito accorto della sua sensibilità che diviene
multipla, narrante e ri/vissuta come evocazione e allarme apocalittico,
o tesa pena che attrista nelle intimazioni direi di tipo omerico,
con una sua logica mai indulgente, spesso perché la materia
della scrittura è più volte invasa da suggestioni
culturali con cui Angelo Di Mario è convinto sia più
solenne e più agile presentarsi al lettore in un’età
della scienza in cui i paesaggi sono afflitti dalla fabbrica dell’ambiguità
e del disamore, e i mistagogi sono (o divetano) irsuti lupi rapaci.
In più sezioni, ecco quindi il suo “infinito”
racconto della funzione dell’indispensabilità di dare
uno spazio alla forma dell’Es(sere), il gusto dell’aggregazione
di più elementi di forma, in lingua itinerale fluente, riformata,
riassestata alla congenialità del proprio rapporto con l’ego
sull’indagine del logos, di una loro metafisica che ospita
la medesima fantasia del poeta, la forma dell’Amo, e ciò
che accede violento alla conoscenza comune, senza dissimulazione,
e messinscena eldoralistiche.
L’azione è il fare, come categoria della proposta e
come imperativo categorico, determina esiti drammaturgici, rifonda
la metafora alla tensione, la libertà al sogno, “pieno
di nulla come la vita” direbbe Fernando Pessoa, ma che, nella
costanza del quotidiano, Di Mario cerca di significare, vitalisticamente,
senza musicalità umiliata, ma in una etimologia della rinascita,
non soltanto sintattica, ma elocutiva, in qualche modo scapigliata,
quasi per continuare nella sua attiva idea di eccitazione e di sofferenza.
Testimonianze
VITTORIO G. ROSSI
A DI MARIO
Caro Di Mario,
Grazie. Ho letto con piacere.
Ricevo continuamente libri di poesia; e rarissimamente ne ho godimento.
Lei maneggia gli aggettivi e le antitesi con una scaltrezza ammirabile,
come pietre preziose.
Un buon augurio e un saluto cordialissimo dal suo
Vittorio G. Rossi
BINO REBELLATO
AD ANGELO DI MARIO
Gentile Signor Di Mario,
riferendomi alla Sua concezione dell’esistenza come apparenza
del divenire ho effettivamente notato come in quasi tutte le Sue
liriche si manifesti quel senso d’angoscia, quell’irrimediabilità
fatale di una realtà che impedisce di essere se stessi, di
mantenere una posizione che si credeva conquistata: ne deriva quel
tono generale di insofferenza, quella ribellione impotente che dà
al verso una sua forma particolarissima, impostata su una misura
aspra, ricco di cesure e di contrasti violenti.
VALERI E TOMBARI
A DI MARIO
Caro Di Mario,
grazie delle sua gentilissima e dei versi che, indubbiamente, riflettono
uno stato d'animo “poetico” con sincerità assoluta.
Auguri affettuosi dal Suo
Valeri
Grazie del Suo libro che sto leggendo con curiosità
e interesse là dove – abituato alla lirica tradizionale
e nuovo alla nuova – non tutto mi è chiaro. Con la
buona Pasqua passata e avvenire.
Tombari
Riecheggia in questo poeta giovane l’amara accettazione
inesplicabile dei “poètes maudits”, ma il discorso
è più pacato, la ribellione meno assoluta. La sua
lirica è tuttavia un chiuso gomitolo che forse le vicende
della vita dipaneranno pian piano, o forse arrufferanno in un intrico
non facilmente penetrabile. Mette conto di seguire, con attesa fiduciosa,
un’evoluzione ( o forse una involuzione?) che può avere
foci imprevedibili.
Tullio d’Aspro
Nell’antologia “Poesia italiana” 1966
Da “Presenza”, 1976
Angelo Di Mario, poeta e scrittore, è nato nel Lazio: vive
a Poggio Mirteto, nella provincia di Rieti. Da molti anni si occupa
di poesia e partecipa attivamente alla vita artistica nazionale.
Critici, giornali e riviste si sono interessati particolarmente
alla sua poesia. Si ricordano: Diego Valeri, Vittorio G. Rossi,
Bino Rebellato, Luigi Pumpo, Giorgio Barberi Squarotti, Fabio Tombari,
Libero Bigiaretti, Franco Tralli, Mimma Forlani, Vincenzio G. Costanzo…
Giudizi di altri esperti; alcuni apparsi su Riviste, Antologie,
Annuari, Quotidiani (continua).