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Angelo Di Mario
Poesie


GIUDIZI sulla POESIA

Da “Città di Vita”, Anno XXVIII, n. 5:

Angelo Di Mario, I giorni sono le piazze, Seledizioni, Bologna 1972:

Questa poesia è l’espressione dello stupore quasi raggelante di fronte alle infinite possibilità esistenziali aperte davanti a ogni uomo, le quali, però si risolvono in un cammino inspiegabilmente unico, in cui gioie, solitudine, pene e memorie sono personalissime e perciò stesso incomunicabili; della certezza penosa che mai ci potremo rendere pienamente conto di quello che sia questo nostro esistere; della coscienza gioiosamente stupita che, nonostante la sua piccolezza e la limitatezza delle sue esperienze, apparentemente vaste in se stesse, l’uomo è vivo; della reazione alle evidenti ingiustizie sociali.
Trapela da questo volumetto un invito a un più attento contatto con la realtà e a una più accorta diretta indagine della medesima, lasciando da parte la scienza inutile e fossilizzata dei cattedratici, e un incitamento all’amore.
L’architettura di questa poesia poggia su una tecnica risultante dall’accostamento di visioni (la visionarietà è una qualità precipua di questo A.) in apparenza slegato (tecnica e disposizione, si direbbe), ma fantasticamente connesso, e dalla rappresentazione di tumulti che finiscono in echi lontani e smorzati.
  Ferdinando Alfonsi



Ad Angelo Di Mario,
trovo qui sul mio tavolo, tra le carte, la pagina a lei dedicata dalla “Nuova gazzetta di Calabria”. Sono in ritardo, ma non voglio che rimanga senza una mia affettuosa testimonianza sulla serietà del suo lavoro poetico. Leggo tanta, troppa poesia, ma questa è fresca, meditata, piena di pensiero. La ricerca formale è costante, il linguaggio mai scelto e usato a caso.
Mi congratulo con lei e gradisca l’augurio cordiale di buon lavoro.
Suo
Dino Carlesi


Presente anche in molte antologie e segnalato o premiato in numerosi premi, non è soltanto costante, ma si distingue anche per i mezzi espressivi rivoluzionari e come portatore di nuovi contenuti o, almeno, di nuove analisi sulla “verità circolare”. In questa antologia presentiamo l’incipit di un suo interessante poema sulla condizione umana che sta per essere pubblicato.
Da “Poeti a Gradara” (Antologia 1970/’71)



Prefazione

Forse la moda cancella la vera personalità dell’uomo. Di certo riesce a spostare le sue intenzioni sociali. Non per niente i carrozzoni pubblicitari sono tali appunto per il fatto che sono in grado di smuovere quell’apatia che a volte condiziona l’esistenza della nostra collettività. Quest’anno tutti parlano di Alessandro Manzoni. Perché? E’ logico, ricorre il centenario della sua nascita. Fino a ieri ci si ricordava appena che “I promessi sposi” era un romanzo guida, che don Abbondio poteva rispecchiare l’indecisione e la viltà del nostro secolo, che il cardinale Federico ha lo stesso sguardo della società dei consumi: avido ed insaziabile.
In questo vorticoso mulinello, la nostra ricerca critica sulla poesia non poteva tralasciare un aforisma del Manzoni: “A chi dicesse che la poesia è fondata sulla immaginazione e sul sentimento e che la riflessione la raffredda, si può rispondere che più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo, più si trova poesia vera”, al quale vorremmo aggiungere: La fonte d’ogni poesia è il sentimento profondo dell’inesprimibile”.
Da questi brevi aforismi, il discorso sulla poesia di Angelo Di Mario diventa più eloquente e meno complicato.
Angelo Di Mario in “Un giorno di radici” mette a nudo una ricerca spasmodica di stati d’animo che giocano di buon grado con il sentimento e la cruda realtà. C’è quella naturale predisposizione per l’introspezione, per la denuncia, per la parapsicologia. E’ un fattore importante conoscere il nesso logico che intercorre tra le singole composizioni, perché tutte le poesie risultano concatenate con un leggero filo conduttore che si dipana attraverso sentimenti e aspetti poliedrici della nostra epoca.
Dalla riflessione più acuta Angelo Di Mario sviluppa un discorso lirico caldo, in cui l’umanità, con i suoi tanti risvolti sociali, ribolle di una luce che non è intermittente ma continua, accecante, imprevedibile. Tutta la sua poesia, del resto, contiene in embrione questi risvolti, queste sfumature, questi passaggi. Costruire una piramide da cui spaziare sul vuoto del mondo può essere facile e difficile al tempo stesso. Costruire un organismo poetico che solidifichi in quadro dell’uomo è senz’altro difficile, specialmente oggi che tutti siamo presi dalla meccanica rivoluzione del sesso, della macchina, della droga. La poesia e la filosofia – perché il poeta è anche filosofo – rimangono così isolate, addirittura dimenticate, tanto l’uomo crede nella pochezza della propria fantasia, del proprio buon senso, della propria coralità psicologica.
Angelo Di Mario, contrariamente a quanto avviene per altri scrittori che pure vanno per la maggiore, rifugge da facili accostamenti con la dinamica sociale attualmente in atto e con versi forti butta sul tappeto i problemi più vicini al suo mondo, che naturalmente diventa il nostro mondo, quel mondo in cui ogni giorno cerchiamo di trovare un po' di spazio per non morire e per vivere un po’ dignitosamente.
Notiamo così l’evanescenza della realtà (“Ho appreso a salire spirali d’ansia, - stringendo mani ventose e labbra nivee”), il desiderio di rimanere ancorato al passato (“Ho sentito chiamare - lungo i muri, - la voce era attaccata – alle foglie notturne – e non moriva, - come d’autunno le vele delle nebbie – umide di ricordi”), il calco dei giorni non dimenticati (“Il mio paese era cima e rudere…- ma se ci torni un giorno di radici, - e rapprendi le lacrime in un cristallo di sorriso, - nessuno si accorgerà che stai raccogliendo – elemosine grigie, dentro fermi gridi”), la paura del domani (“Metti via la macchina – soffoca la radiolina – qui c’è l’erba accòstati – qui c’è l’ombra acquiétati – qui c’è l’acqua purìficati”…
Il dilemma del nostro futuro con tutte le incognite che racchiude si sviluppa in parte dell’intera raccolta “Un giorno di radici”, tanto che a volte ci troviamo come tuffati nell’aria a raccogliere manciate di cielo e di luce, senza quell’eterno spauracchio dello smog, dell’inquinamento, del rumore.
“La natura ride con le braccia alzate”, ci attende quasi; sta a noi ritrovarla e comprendere le sue necessità.
La poesia di Angelo Di Mario fatta di semplici addentellati e di tanti sottintesi vuole essere un invito alla riflessione, a ritrovare nel silenzio di noi stessi la gioia di vivere e di sognare, perché “nei poeti sogna l’umanità” (Hebbel) e “il mondo è proprio bello da guardare, ma specialmente quello dei poeti” (Goethe).
Fulvio Castellani



Premio Gradara Silloge n. 4, 19 novembre 1971

Caro Di Mario,
rileggo il Suo rivoluzionario poemetto, o straziante poemone, sulla condizione umana, e Le sono vicino nel guardare impietosamente le cose; e letterariamente apprezzo la Sua capacità di far divenire l’autobiografia una verità circolare, cioè un’analisi che investe l’universale.

Quanto ai Suoi mezzi espressivi, anch’essi rivoluzionari, sono tali che bisogna accettarli o respingerli in blocco.
Noi, della Todariana Editrice, nel dilemma di quest’opera in cui si discute se significazioni nuove possano fare scaturire nuovi mezzi espressivi, o viceversa, li accettiamo, non soltanto per lo spirito giovanile che ci attribuiscono e che magari abbiamo, ma anche per la precisa convinzione che il dilemma di cui sopra non è esattamente biforcuto, cioè o così o in quell’altro modo e basta, ma è piuttosto un dilemma poliedrico e variegato, che tensioni letterarie come la sua, possono sospingere.

Perciò sarei anche lieto di includere nei risvolti di sovraccopertina dell’eventuale pubblicazione, anche sue dichiarazioni letterarie che la pregherei di farmi avere.

Presenteremo alla critica il Suo volume come una “sfida”, per così dire, con l’intenzione di suscitare polemiche fattive; che significa anche tentare di farle conseguire tutta la notorietà che sarà possibile, e che lei certamente merita.
Teodoro Giùttari



12 novembre 1973
Direzione Letteraria EM/ TG

Relazione
Oggetto: Quattro raccolte di poesia di Angelo Di Mario

Di Mario è un vero poeta che ha raggiunto una maturità di linguaggio e una sicurezza di moduli veramente notevoli. La sua poesia ci fa molto pensare a quei grandi poeti un po’ naif e un po’ avanguardisti – e chissà perché ci tornano alla mente tipi come Lorenzo Calogero-, che forse costituisce il vero scheletro della poesia italiana dopo l’isterilimento del classicismo e soprattutto del “retorismo’.

A parte la raccolta “A più voci”, troppo sperimentale e non risolta (che scarteremo), indubbiamente “Maestro elementare” (un poemetto molto originale), “Un giorno di radici”, e “i giorni sono le piazze” testimoniano di una raggiunta e personale maturità poetica. Più che poesie, specie “Un giorno di radici” e “i giorni sono le piazze” sono poemetti, tant’è vero che sono divisi dal numero romano. Consigliamo l’Autore di considerare l’opportunità di trarre dalle tre raccolte suddette, opportunamente selezionate, il suo percorso poetico. Tale opera troverebbe la sua giusta collocazione nella nostra più prestigiosa collana di poesia detta “La Scacchiera”.

In questo caso bisognerebbe trovare un titolo generale per l’opera riservando i titoli attuali alle sezioni.



Da “La nuova Gazzetta di Calabria” Anno XI – N. 3.4 (nuova serie), Cosenza , 30 maggio 1973:

ANGELO DI MARIO: “I giorni sono le piazze”. Premio Nazionale “Pagina d’Oro” per inediti 1970. Seledizioni – Bologna

Pubblichiamo la prefazione dell’Editore:

Quando, in veste di Presidente del “Premio Nazionale Pagine d’Oro”, ho dovuto stendere la motivazione per il lavoro di Angelo Di Mario giunto al primo posto, ebbi a scrivere”… una raccolta di impostazione filmica, sulla quale intarsia una precaria idea di mondo che spesso tradisce sarcasmo e caos, riscattata da un personale estro linguistico ed avvalorata da una chiara consapevolezza delle proposte letterarie contemporanee”, ero rimasto certamente colpito dalla prima lettura di un’opera che a tutta la giuria era apparsa meritevole – in assoluto – di primo premio.
Trascorso l’entusiasmo iniziale, sia dell’addetto ai lavori che del presidente di giuria, mi sono riletto “ I giorni sono le piazze” e m’è sembrato che a Di Mario fosse stato fatto un gran torto: quello, soprattutto, di non aver messo in luce la visionarietà del suo far poesia.
Perché, prima di ogni altra congratulazione, a Di Mario andrebbe fatta questa: che, pur nella varietà degli argomenti, il filo conduttore porta a considerare – sulla falsariga tracciata dall’autore – un particolare tipo di ironia costruttiva, ma quasi trafugata dall’iter quotidiano di un isolato che si destreggia tra il caos dei condizionamenti di un habitat a prestito e il suo “guardarsi molteplice”.
Benché attratto da una voce lontana o da un riso nell’aria o dall’altalena delle ferite, sente di dover sprangare la porta perché gli rimane la sola certezza dell’amore. Comunque si esprima. I giorni infatti sono le piazze, le strade, i campi, dovunque si viva; ma dove tutto è dato in cambio di qualcosa, tanto al giorno. Di Mario giunge alla conclusione rovente che questo è il tempo duro dove non si possono trovare parole se non con strascichi di rimorsi e dal quale gli uomini, spaventati, accettano come doni le distanze e i dolori.
Il tempo che non muta mai, il viso della moglie e dei figli (raffermi in una chiusa meraviglia) che diventano lo specchio di un presente assoluto dentro il quale mestizia e gioco mimano porzioni di stelle e brandelli d’infanzia e improvvisi turgori, sembrano soltanto il medium espressivo di una più interna provvisorietà. Perché l’uomo di Angelo Di Mario è un supersalariato in partenza (“gli comprano le mani”), una tessera di un mosaico al quale è impossibile sottrarsi, una girandola boccaccesca sulla melodia smagante di una pianola da paese.
In questa ecologia della sconfitta, la natura dell’universo è minima e, ad un tempo, immensa come gli “archi alti dell’aria”; il bianco dei silenzi come un’oscura madre con la bocca rappresa di parole non dette; il tempo che c’è da secoli, fossilizzato nell’irrisione.
Ma non bisogna confessarsi niente né riconoscersi impotenti. Non vale.
Alla fine dei giochi, uno solo rimane: la follia dell’amore.
Franco Tralli


Angelo Di Mario – “I giorni sono le piazze” – Seledizioni 1972; “Proiezione fossile” – Pellegrini Editore 1972

La poesia di Angelo Di Mario è certamente un esempio di equilibrio lirico ed immaginistico. I “verdi smeraldi”, i “freschi odori”, le “ondeggianti peonie di grazia” del Sud fermentano il suo mondo poetico pregnante di sensualità. E’ per questo che la poesia assume accenti dannunziani e lorchiani, è ricca di quadri poetici. L’uomo di Di Mario condivide, a livello sensoriale, quale pietra o albero, l’armonia del globo. E’ antico nella sua aspirazione catartica, rifiuta la vita quotidiana anche se soffre a livello individuale e sociale. La stupefatta ammirazione della creatura colpita da “mani soffici” che affiorano “nel vento delle risate muliebri” si trasforma allora in angoscia strisciante nei traumi da pozzi sbiancati di tacita insonnia.
Il paesaggio scompare, lascia il posto ad “asprezze socievoli” “in piazze e tuguri, “prigioni e castelli”. L’essenza della vita sta in questa angoscia, che nutre una poesia protestataria di accenti aspri ma raccolti. Essa è la “proiezione fossile” dell’uomo libero, come gabbiano, oppure schiavo,, trafitto da “roventi chiodi”. Creatura che vive e si sente vivere. Tutto questo si trova nei due volumi di poesie di Di Mario. Essi sono la testimonianza di una voce pacata, sempre sofferta, quindi sincera.
Mimma Forlani


ANGELO DI MARIO: “La parola alta e muta”, Ed. regione letteraria – Club degli Autori – 1967.

Vibra nella lirica di Angelo Di Mario una strana nota di inconsapevolezza sul futuro dell’Umanità, un senso acuto di angoscia come l’attesa di qualcosa di sconosciuto che non si sa come e quando e pure deve venire. A vantaggio o a danno dell’Umanità?

Il poeta sembra chiedersi questo e, nella sua impossibilità a dare una risposta al misterioso quesito, sembra volersi isolare, a forza, contro tutte le leggi della natura, della vita e della morte, per potere assistere, anche se impotentemente, all’arrivo di questa suprema incognita ed ai suoi sviluppi sull’avvenire dell’uomo.
“Discreta e sottesa / ama e si rompe / in corsa lungo il vento precipite / dietro le zolle di turgore e mare / sull’ago che serra le bocche di silenzio / e le stelle che non possono incontrarsi, / dato il fuoco, dato lo spazio perenne”.
Spettatore apparentemente impassibile e freddo, il poeta porta in sé racchiuso il cosmico dolore per incomprensibili destini che gravano su noi tutti:
“Primavera sconvolta, / incurvata sopravviene. / Qualcosa volteggia atterrato / nel mio cuore”.
E, insieme, la tensione psichica per una schopenaueriana insoddisfazione della volontà:
“ La parola alata e muta / nel giorno fermo, sempre. / Moriamo entrambi fermi / sopra due rami distanti”.
Nella coscienza di non potere definire i motivi di questo inevitabile destino, causato da desideri umani e causa di nuovi e più prorompenti desideri, tuttavia egli vuole continuare a credere nelle facoltà dell’uomo, questo essere nato dal nulla, per una favorevole combinazione di elementi anche non casuale, è capace di sopravvivere spiritualmente a qualunque sciagura morale che tenda ad abbattere ogni sua concezione mentale acquisita attraverso l’esperienza di secoli: “Sì” di tutto “No” di nulla, perché – in ciò che si è, s’ha da credere”. Senza ombra di dubbio la poesia di Angelo Di Mario ci conduce, inevitabilmente, a riflettere, a cercare una giustificazione, a trarre delle conclusioni che rappresentino il diapason psico-fisico di tutte le nostre facoltà. Si può studiare, a tal proposito, la poesia XXIII che, per ragioni di spazio non riporto; ma, in generale, ci si può lasciare trascinare dai gorghi della poesia del Di Mario con la certezza di leggere non solo una poesia originale, ma soprattutto una poesia che di moderno non ha solo la forma bensì il motivo di essere.
Vincenzo G. Costanzo


ANGELO DI MARIO: “La parola alta e muta” – Ed. “Regione Letteraria”, Bologna – 1967.

La poesia di Angelo Di Mario evoca una malinconica cantilena dalla quale par nascere tutto il quadro in cui s’accampano nel triste paesaggio, ognuno nella sua solitudine disperata, gli uomini.
“… Un randagio di vento che agonizzi il tuo nome / oggetto scaricato senza corteccia o impronta… / Il rifiuto della vita procede inerte, / sulla bassa scarpata della nostra amarezza / il cumulo enorme dei detriti sprofondanti…”.
E’ un ritmo cadenzato di monotonia dolente e cupa, di sapore verghiano, dove il motivo esistenziale si intreccia, fondendosi in un gioco serrato, col motivo dell’amore, che è qui vaga bramosia di ignoto; l’accorgersi della incoerenza del mondo visibile (“ il rauco stridere dell’assenza del mondo ”) porta alla rivolta contro la condizione umana sofferta e odiata, al tempo stesso. Se però Verga ci rileva come la lotta sia già persa in partenza (infatti il destino individuale coincide con quello storico della classe sociale a cui un uomo appartiene), Di Mario rimane, si cala in una dimensione romantica, in cui l’uomo in potenza si sente titanico, ma all’atto pratico è vittima, poiché non riesce ad estrinsecarsi. Il suo subcosciente vorrebbe vivere due vite opposte o nessuna, essere al tempo stesso quello che si è e quello che si vorrebbe essere. Vorrebbe sentirsi elementare, ma il contrasto tra una passionalità primordiale e un intellettualismo a volte artificioso, glielo impedisce. E in questo suo continuo altalenarsi è preda di crisi di esaltazione e di depressione.
Ma la rivolta di Di Mario è manifestatamente di spontaneità ed espressione compiuta della realtà di un sentimento profondo, là dove il paesaggio si apre sulle forme più care al poeta: sugli arenili, sulle acque, sui boschi, sulle estensioni verdi.
“… Hanno tuniche campestri / l’erbe, hanno / infinite reticenze / come i paesaggi del meridione / zittiti sotto il sole… Così il rosso imperversa / per i balconi dell’alba / e lancia calici e aromi / nel verde folle d’azzurro”.
Ma è solo una pausa: il continuare a vivere, nonostante tutto, è indifferente e il senso di accettazione delle cose indica il segno più assoluto di questa indifferenza, il cui necessario epilogo è la totale dissoluzione dell’individuo. Non resta che “ ruggine e lotta senza nome”.
Malerte


ANGELO DI MARIO:
“La parola alta e muta” (Regione letteraria).
In questa sua ultima silloge l’autore sabino prova all’estremo che la buona poesia à confessione sincera, mutazione del mondo che geme dentro. Egli, malinconico per costituzione, esprime scrivendo il suo sentire di creatura:
“ L’uomo corre assetato / per i deserti dell’acqua. / dentro gli trema un uccello / di tristezza e d’eterno”.
E ancora:
“ La pioggia di grigio / a un tratto alza sui campi / l’arcobaleno”.
Di Mario appartiene a quella fauna di vivi che cantano per non morire.
F. Boneschi



ANGELO DI MARIO, con il libro “Proiezione fossile” (Pellegrini Editore), ha vinto il terzo premio “San Valentino” 1972 e il terzo premio ha pure conseguito nel concorso “Natura”. A Di Mario vadano i nostri più vivi rallegramenti.



ANGELO DI MARIO, IL LIBRO, 1979 (Poema, XXVI canti)

Giorgio Barberi Squarotti, Torino, 24 agosto 1978:
Caro Di Mario, … mi scusi se non mi sono più fatto sentire…..Ma, col favore dell’estate, ho potuto finalmente leggere e meditare Il libro, che è un’opera di straordinaria poesia, l’unica di così vasta ideazione e di così splendida attuazione nel linguaggio e nella forma che io conosca nel nostro novecento. Ella è riuscita a coinvolgere nel suo discorso poetico realtà materiale e storia, politica e passione, filosofia e scienza, come nei grandi poemi del passato. Sono rimasto, dopo la lettura, sconvolto di ammirazione e di entusiasmo.
Credo che l’opera meriti di essere resa nota. Pensa di pubblicarla?….


Giorgio Barberi Squarotti, Torino, 27 novembre 1979:
Caro Di Mario, sono molto lieto che Il libro sia uscito. L’ho riletto con estremo interesse e meglio ho potuto apprezzare il carattere “totale” del poema, fra rappresentazione morale e splendide evocazioni liriche, un’estrema dolcezza e l’acutezza di un discorso grandioso di carattere etico e civile. E’ il vero compendio poetico delle nostre sorti, nel male e nel bene; e il linguaggio che elle usa è perfettamente adeguato, duttile e vario com’è, all’assunto del poema dell’oggi, quale regge Il libro ( che è anche un bel titolo, adeguato all’opera: Il libro, la bibbia del nostro tempo).


ANGELO DI MARIO, I giorni, 1988.

DOMENICO CARA, Prefazione:
Etica delle passioni
(e sue istanze, isterie, oscuro erbario)

Sul de profundis dei giorni
L’infinito (poetico) di Angelo Di Mario riattiva costantemente una propria pretestuale irrealtà, ritorna all’ombelico del mondo, funziona come fantasia (poematica), misura l’amore per le metamorfosi e la disponibilità all’intreccio (narrativo e descrittivo) degli eventi ancestrali e remoti, su un’inesauribilità imparata giorno dopo giorno (il “giorno” è un topos dinoccolato e riflessivo che riaccetta la fiaba e il tumulto individuale), anche attraverso la multilinearità della sua scrittura di prima (1959) e di adesso (1987).
Dall’insieme l’atmosfera del sé espone una connaturale testimonianza dell’emozione sospinta oltre un organico conflitto di segni, e riemergente su strutture tematiche le più varie e pulsanti: la foglia e la memoria, l’orologio e la nudità, l’equilibrio e il germoglio, l’eterno e la quiete, la pietra e la rosa, il diavolo e il camalente, la mannaia e l’istinto, il cristallo e la nuvola, la terra e il vento, il deserto e un equipaggio, l’acqua e la passione, la donna e lo sguardo, la luna e il giallo, la notte e la canzone, il varco e l’orizzonte, il papavero e la radice, e con essi una cospicua voluttà di rapporti mentali, visualistici, direi scenici della parola, qua e là una filigrana “ispirativa”, in altri punti (di contatto) fluenza della vita umana che nel poeta trasmigra, si assesta, o si altera, si dispiega, si muove tra il recupero di paradigmi, proprio della liricità, e un messaggio strumentale di istituzione del profondo o, meglio, della dinamica della (s)oggettività possibile, mai segreta, né imprevedibile, o da escludersi nel dettato degli anni arsi!
La sua vicenda aggregativa non è mai dissipabile, le ragioni della fantasia non si separano da ciò che il modello reale accoglie e –comunque- non si tratta di un profeta infallibile, sebbene la materia ceda facilmente al riscatto di se stessa come continuum sperimentale, trascrizione di maschera, colore della metafora e uso in parte mutilo.
Tutto s’iscrive nel clima del vissuto, riesplorato, non direi attraverso i traumi del sistema, ma una civile e automatica spontaneità, in connessione con la paranoia del potere (la sua dialettica del non) e di quel fiancheggiamento tutt’altro che gratuito di plasticità dell’immagine del siamo, non siamo, di cui è intrisa la situazione umana (e non soltanto poetica) di tutto il Novecento, internato dai fatti storici in una buia notte della continua ed ossessiva riscoperta, e di quell’ansare ritmico, cardiovascolare della espressività, secondo gli accadimenti, le dis/obbedienze, le usure di pazienza, le occulte o aperte autodistruzioni.
Gli effetti materici hanno il massimo di elocuzione, gesticolano nella lucentezza alquanto spettacolare, in cui il male non si rovescia sul vuoto e – spesso – persiste, e in un nihilismo rozzo e passivo, dal vivo dei contesti diversi e dalle estreme e folgoranti (e sia pur occulte) tensioni.

La ricorrenza dell’ebbrezza
Così l’immaginazione occupa il vissuto (e il sopravvivente), si libera dei propri tragitti su corruttibili parole, spazi disegnati nella strofe, sensazioni costruttive a movente Apollinaire; su certe rigidità di sintagma a uniformità tolemaica, senza passione per il Sublime e senza lettura di pessimismo, ma indagando il Tempo della quotidiana rinascenza, le tautologie sorprese in uno stato di plurima distillazione (anche grafica), penetrando il provvisorio, riempiendo di ritmi le ulteriori possibilità del “canto”, manifestando peculiarmente contro la minaccia alla vita di ognuno di noi e della sua frequenza ossidabilità: “le strade sono lunghi echi / dove scorre sudore a grani / dove le trombe della luce / annientano la voce dei respiri, / dove la cicala si spacca di sete e la nuvola sbianca, / dove i desideri piantano àncore / che subito tutti calpestano, / dove cresce l’arida fame / d’incontrare qualche uomo, / dove l’amore a testa bassa / si guarda le nude natiche; / dove si cerca un altro dove”.
E, nella serie di interrogativi, nulla ancora si domina sia che la prova diventi familiare, sia che l’ingegno riporti in strette terroristiche la maschera della comunicazione ad ogni altra ambiguità pretestuale, su messinscena amara o su divertiti emblemi di un rappresentabile, ed eterno carnevale della società difforme.
La poesia non ha bisogno di codeste dionisiache determinazioni dello scriba fuggente, o nascosto in limbi segreti e tristi del conformismo attuale, e tanto meno dell’insistenza privata e pubblica delle connotazioni spietate, prive di esatto codice e di richiesta documentale, ma è una necessità d’autore proporre il dubbio, l’allusività, la combaciante esperienza del conoscere, anziché distaccarsi da tutto ciò e inventarsi aneliti metafisici, astrazioni proiettate oltre le ardenti (e coerenti) fiamme dell’esistenza.
Ed è così che la poesia (letta o non letta, che appare ingrata per i suoi misteri e i suoi svolazzi, diafana o intrisa di proficuo peccato) si estrinseca nella differenza da innumerevoli linguaggi persecutivi, protesi alla conoscenza della gioia e del dolore, delle solitudini adulte e delle folle e follie avvelenate, quasi come atto sospeso di prefigurazione e anche di ritratto dell’inquietudine, piuttosto che come un’antica e pur rinnovabile e ribaltabile ebbrezza.
La vocazione alla creatività di Angelo Di Mario ne suggerisce il gioco atroce, disquisitivo; racconta un uso e disuso del tempo, della storia legittima, al di qua di ogni turgore utopico od odio di fatto, ma su maniere dalla varia e variegata proclamazione di humus, producendo alcune tracce di spettacolo visuale ma testimoniando (comunque nell’intero e opimo progress) con una lingua di spostamenti e di ironie, o di disincanti, nomadistica, la non esclusione del cerimoniale in ogni atteggiamento della vita incompleta e fossile, serena o barbara, nella dissonanza e – in ogni caso – sostanza stravolta, in più orbite.

Toni di commiato di una generazione della fierezza
L’ideologia dell’oscillazione (nel testo) si assume in più punti una valenza (e violenza, sia pur umorale) insultante, dialettizzata, escretoria: “… e siccome stiamo in mezzo / vedo buco futuro / martello cervello / marito dito / pater nostro che sei in Usa / che ci ami con le tue uova / che vuoi porle accanto alle russe / come niente fusse / a iosa / uova / della morte / chiamate ate / civile vile / difesa // niente cocotte a frotte / con slip / con topless / see enza enza / nuu de ude”, e dove l’opposizione tralascia l’idoneità poeticistica per una sospesa e chiaramente mimetica deglutizione d’un oggetto d’in(sapore) politico a ritmo ed insofferenza popolare.
E continuando a documentare l’estasi del peggio, la rima e l’allitterazione non “addolciscono i suoni” del suo discorso, e i tempi e i termini dell’irrisione occupano l’intera verticalità della pagina bianca, sostituendosi a quell’infinito, a quella parola a più voci che trasuda nei più vasti ritmi, la cui lucidità del senso è tutt’altro che inapparente od elusiva.
E’ riconoscibile comunque l’extra essenzialità della poesia per una intervenzione e conduzione di suasioni verbali, di bagliori sortiti da quelle necessità e ragioni che non hanno niente a che vedere con le generazioni presenti, sia pur nello stupore contingente del consumo del mondo; una duttilità specificamente filosofica che certo non congela la parola e, anzi, la fa fluttuare con più forza, quasi per azione di pensieri, per connotare (e sfuggire) gli inganni, i linguaggi controversi, gli arbitri di lingua, gli svolazzi di finzioni, suppongo.
Angelo Di Mario quindi non trascura l’origine della condizione da cui giunge la lusinga del linguaggio, e desidera applicarla all’esigenza del suo spirito che costruisce una verità, e l’immagine con la quale egli si accompagna per riscoprire il visibile e l’invisibile nella percezione meno inesatta, per definizioni possibili, concetti privati, fac-simili disquisitivi, per riattivare l’esistere piuttosto che slittare su toni discendenti, dinanzi alla sostanza dei vari enigmi regolati dalla sopravvivenza anche della poesia, in una partitura della sua ciclicità contemporanea).
La struttura quindi è percepita come definizione (e linfa) dinamica del verso; il corpo della voce si carica di movimenti, di configurazioni testimoniali e campi semantici dall’aspetto vitale che – tra l’altro – prolungano la memoria e lo snodarsi di principi individuali, di suoni, pragmatie figurali tenebrose, lunari, altre cupità del naufragio, ascrivibili a materiali surrealistici, ovviamente intrisi (e nelle capacità traumatiche) della collettiva tragedia!
Nel clima prospettato dal poeta, non manca qualche giglio, qualcosa di scorrevole e di terso; ma non si tratta di felicità sia pur provvisoria o arcana, ma di una misura improvvisa di rendere meno difficile il calco del discours, o sconcertante, e della medesima modernità (proprio nel circuito delle s/consolazioni e degli stessi duttili gridi).

Etimologia come orgia e perpetuo spazio (della forma)
Nella medesima gamma delle fatue distrazioni cosmiche, di giochi assorti, di ciò che delira in un contesto di progettazione poetica, in aloni, sottintesi, rese formali, etimologie perscrutabili ed auscultanti nella loro scientificità di formulazione e di lingua, ancora l’infinito si riproduce in più cristalli, ardori, ansiti luminosi, intride “l’ombra folle”, per dirci tutto (o molto) dell’uomo, scoprire i suoi chiodi, le sue corolle, ciò che è brivido opaco quando “l’occhio fisso sulla petraia” identifica una diversa realtà.
Ma l’inerzia del poeta fissa più àmbiti, luoghi dell’evanescenza e del sospetto, scava fisionomie dirette e indirette, riammette sentimenti nell’inerzia e nelle varianti del fare poetico, i veri lutti, ciò che lampeggia nella tenebra, o parla in un angolo in bisbigli: “Il giorno sedeva accanto alla morte, / rotolando foglie con ironia; / si udivano rapide lontananze / sfogliare le acque in lento cadere; / prima quietamente, come lo scroscio / del grano, ancora intimo, prima / che appariva lento il nucleo del verde, / la chiara chioma, e ancora più oltre / il tinnio cieco, cuore di nuvola; / poi accadde d’un tratto il nero / acuirsi, tutto il nero e il cosmo, / tutta la tenebra esplose del mondo”.
E in codesta fiction poematica, in più punti ossimorica, depistante, su prodigiosa coscienza della realtà, il vaneggiamento fa parte di un empito accorto della sua sensibilità che diviene multipla, narrante e ri/vissuta come evocazione e allarme apocalittico, o tesa pena che attrista nelle intimazioni direi di tipo omerico, con una sua logica mai indulgente, spesso perché la materia della scrittura è più volte invasa da suggestioni culturali con cui Angelo Di Mario è convinto sia più solenne e più agile presentarsi al lettore in un’età della scienza in cui i paesaggi sono afflitti dalla fabbrica dell’ambiguità e del disamore, e i mistagogi sono (o divetano) irsuti lupi rapaci.
In più sezioni, ecco quindi il suo “infinito” racconto della funzione dell’indispensabilità di dare uno spazio alla forma dell’Es(sere), il gusto dell’aggregazione di più elementi di forma, in lingua itinerale fluente, riformata, riassestata alla congenialità del proprio rapporto con l’ego sull’indagine del logos, di una loro metafisica che ospita la medesima fantasia del poeta, la forma dell’Amo, e ciò che accede violento alla conoscenza comune, senza dissimulazione, e messinscena eldoralistiche.
L’azione è il fare, come categoria della proposta e come imperativo categorico, determina esiti drammaturgici, rifonda la metafora alla tensione, la libertà al sogno, “pieno di nulla come la vita” direbbe Fernando Pessoa, ma che, nella costanza del quotidiano, Di Mario cerca di significare, vitalisticamente, senza musicalità umiliata, ma in una etimologia della rinascita, non soltanto sintattica, ma elocutiva, in qualche modo scapigliata, quasi per continuare nella sua attiva idea di eccitazione e di sofferenza.


Testimonianze
VITTORIO G. ROSSI
A DI MARIO

Caro Di Mario,
Grazie. Ho letto con piacere.
Ricevo continuamente libri di poesia; e rarissimamente ne ho godimento.
Lei maneggia gli aggettivi e le antitesi con una scaltrezza ammirabile, come pietre preziose.
Un buon augurio e un saluto cordialissimo dal suo
Vittorio G. Rossi

BINO REBELLATO
AD ANGELO DI MARIO

Gentile Signor Di Mario,
riferendomi alla Sua concezione dell’esistenza come apparenza del divenire ho effettivamente notato come in quasi tutte le Sue liriche si manifesti quel senso d’angoscia, quell’irrimediabilità fatale di una realtà che impedisce di essere se stessi, di mantenere una posizione che si credeva conquistata: ne deriva quel tono generale di insofferenza, quella ribellione impotente che dà al verso una sua forma particolarissima, impostata su una misura aspra, ricco di cesure e di contrasti violenti.


VALERI E TOMBARI
A DI MARIO
Caro Di Mario,
grazie delle sua gentilissima e dei versi che, indubbiamente, riflettono uno stato d'animo “poetico” con sincerità assoluta. Auguri affettuosi dal Suo
Valeri

Grazie del Suo libro che sto leggendo con curiosità e interesse là dove – abituato alla lirica tradizionale e nuovo alla nuova – non tutto mi è chiaro. Con la buona Pasqua passata e avvenire.
Tombari

Riecheggia in questo poeta giovane l’amara accettazione inesplicabile dei “poètes maudits”, ma il discorso è più pacato, la ribellione meno assoluta. La sua lirica è tuttavia un chiuso gomitolo che forse le vicende della vita dipaneranno pian piano, o forse arrufferanno in un intrico non facilmente penetrabile. Mette conto di seguire, con attesa fiduciosa, un’evoluzione ( o forse una involuzione?) che può avere foci imprevedibili.
Tullio d’Aspro
Nell’antologia “Poesia italiana” 1966


Da “Presenza”, 1976
Angelo Di Mario, poeta e scrittore, è nato nel Lazio: vive a Poggio Mirteto, nella provincia di Rieti. Da molti anni si occupa di poesia e partecipa attivamente alla vita artistica nazionale. Critici, giornali e riviste si sono interessati particolarmente alla sua poesia. Si ricordano: Diego Valeri, Vittorio G. Rossi, Bino Rebellato, Luigi Pumpo, Giorgio Barberi Squarotti, Fabio Tombari, Libero Bigiaretti, Franco Tralli, Mimma Forlani, Vincenzio G. Costanzo…

Giudizi di altri esperti; alcuni apparsi su Riviste, Antologie, Annuari, Quotidiani (continua).




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