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DELL'AUTORE
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VEL-z-na * > AR-wie-ta/ UR-wie-ta
Nell’articolo intitolato
“ARnna HIRumina *UR-Fs(-sa)” ho dimostrato l’incompatibilità
tra la radice SEL > FEL > VEL ‘sole’, da cui traggono
origine tutti i termini riferibili a questa idea, così espressa,
con il nome di * > ARwieta/ Urwieta ‘città’; inoltre,
facevo notare, che con l’introduzione della O, lo sviluppo SEL >
FEL > VEL > VOL > BOL/ POL è coerente; e giustifica i
nomi successivi, noti, come i toponimi BOLsena, BOLogna; in Asia Minore,
presso il fiume Aesepus, si conserva POLichna, e a Lemno il quasi identico
POLiochni, con la desinenza -ch-ni, paragonabile a quella del magistrato
velsinio zil-a-ch-nu/ *til-a-s-su ‘teleste < *telesse’;
con queste minuziose indicazioni possiamo comprendere una larga serie
di nomi, a partire da quelli recuperabili in Asia Minore (UIL-u-siia >
FÍLios(-sa/ -n-na), fino ai nostri definibili VEL-si-ni-i, e Bolsena;
la città capitale di tutti gli Etruschi, distrutta, depredata di
ogni cosa, cancellata; persino i nobili vennero privati delle loro dimore
e ricchezze.
Dopo una lotta che spazza via un centro di raffinata civiltà, così
grande, come le mura lo indicano, distruggendo ogni traccia culturale,
coi resti urbani celati sotto metri di terra, portando via ogni bene prezioso,
sarei molto cauto nel supporre una qualche condiscendenza dei Latini verso
quel popolo, compresi i nobili; piuttosto una parte dei fuggiaschi, forse
solo quelli ritenuti alleati, preavvisati, quelli della classe dominante,
o saranno partiti prima della battaglia, o lasciati fuggire si saranno
in parte salvati ad Orvieto; solo con il passare del tempo, a poco c poco
avranno constatato i limiti sufficienti di sicurezza e di nuovo si saranno
avvicinati alle antiche mura, in basso, riedificando in modo episodico
un piccolo centro, che, data la posizione davanti al lago, rendeva quello
spazio di nuovo accattivante.
E’ indizio di scarsa concretezza supporre che intorno al lago non
fiorissero centri sin da età preistoriche, immaginate se non abitate
anche dagli Etruschi, così diffusi tutti intorno.
Quei signori rifugiati tra le colline, o trafugati ad Orvieto, posto sicuro
e vicino, nel riprendere possesso dei luoghi originari possono aver generato
la confusione degli spostamenti; suppongo che saranno rientrati in una
possibile zona abitabile chissà quanto tempo dopo; riconfermando
il proprio potere; a ostilità ormai del tutto superate e dimenticate.
Comunque sia, o che fuggirono protetti, o furono lasciati fuggire, ben
pochi saranno stati; il problema non cambia: dopo la distruzione quel
residuo di popolo rimasto si disperse; sul posto rimase una città
rasa al suolo, inghiottita dalla vegetazione; senza più alcun segno,
memoria; perché i vincitori avevano incendiato, abbattuto e depredato
ogni cosa, cancellato ogni indizio; ed allestito a Roma la più
grande esposizione della rapina ai danni della definitiva distruzione
della civiltà velsinia, la prima in Italia, e fondamentale, per
la italica ed europea.
La scusa, di tipo bellico, che i Latini piombavano sulla città
con l’intendo di domare i liberti, e restituire il potere ai nobili,
ha la stessa verità di tutte le guerre, come le comprendiamo da
sempre e ancora oggi; se dovevano punire solo queste classi subordinate,
perché hanno distrutto ogni cosa; perché poi si sono impossessati
di tantissime sculture? E di quant’altro noi non potremo mai conoscere,
trafugato tra le mani di ogni comandante? Le possedevano già i
liberti e alleati? Erano arrivati lì per punirli? O piuttosto si
trattava di una delle solite armi propagandistiche, messe in opera dai
belligeranti per ottenere consensi e comprensione? Se appartenevano ai
ricchi, com’è naturale, conquistata la città, come
l’aveva conquistata con l’assedio, entrati, gliele toglievano
per restituirle ai legittimi proprietari, presumibilmente assenti, consigliati
a fuggire appena prima e rifugiati poco distanti, magari nel territorio
sotto la tutela di Orvieto. A guerra finita, con la città in pugno,
questo comportamento avrebbero dovuto riservare ai nobili, reintegrandoli
nelle loro posizioni e ammazzando i liberti. La verità è
che M. Furio Flacco non stava lì per punire o proteggere qualcuno,
doveva solo far scomparire per sempre la civiltà etrusca: città
stato, religione, cultura, opere, libri sacri. Ecco la verità:
spogliarono di qualunque valore tutta l’area; ne sfoggiarono, come
si sa, il più grande Trofeo a Roma. E i soliti Storici a prezzo,
quando la storia è troppo grande, cosa pensate che facciano: si
stanno zitti; per questo non si hanno mai informazioni precise su stragi
indicibile, e rapine estreme; non possiamo pretenderle per epoche così
lontane.
E forse qui sta la ragione per la quale non si potranno recuperare reperti
notevoli da quelle parti, data la distruzione sistematica, allargata a
tutta l’area sotto l’influenza della città. Tuttavia
una ricerca dei ruderi andrebbe compiuta; una indagine degli strati sotto
le mura, per individuare sostanze inglobate e determinarne l’età,
con le analisi oggi possibili; una visione aerea dovrebbe rappresentare
il primo passo, coglierebbe la vastità dell’area abitata,
gli indizi rimasti sotto terra, sotto gli alberi che coprono la campagna.
Una minuziosa revisione del territorio, palmo a palmo, con gente che possiede
occhi capaci di individuare tracce di fratture, forniti di strumenti adatti,
qualche spazio vuoto, con resti di rottami, da qualche cavità sbrecciata
o interrata da secoli potrebbe sempre riemergere un segno preciso; tracce
delle distruzioni devono potersi individuare, almeno sotto lo spessore
protettivo nei campi.
La convinzione della univocità delle due città deve essere
stata provocata proprio dalla totale distruzione: a quel punto qualche
ingegno pratico, o i più, avranno detto: ‘Tutta l’area
è vuota, è nostra’, anzi ci abitavamo noi lì
tra quelle mura sgretolate, rase al suolo: così si sarà
tramandato per secoli. A meno che non sia il prodotto di uno sforzo antistorico,
cominciato subito allora, per coprire le riprovevoli gesta dei Latini.
Ma uno può anche obbiettare: se Orvieto stava nelle città
vecchia, che bisogno aveva di essere trasferito nelle città nuova
con altro nome? E quelle mura, residue, chi le aveva innalzate? I Velzna?
I Vietena? Oppure opera dei Latini; dopo tanta distruzione, che gentili;
circondano le rovine da loro procurate con tanta veemenza, di mura, tra
l’altro, troppo grandi per quattro spiriti rimasti; tanta fatica
gentile, chi se la sarebbe immaginata! Oppure prima di allontanarsi, magnanimi,
permettono l’innalzamento di una fortificazione per favorire un
residuo di popolo, poco prima distrutto, e che poteva andarsene ad abitare
nella sua città vecchia; ma se sono a pezzi, chi le rese tali?
Chi le fece rotolare? Non fecero in tempo a completarle? Oppure erano
e sono l’indizio maggiore che vennero abbattute e disperse, insieme
alla città, grande, con i templi, e i luoghi di rappresentanza?
Che fine hanno fatto tutte le parti mancanti? In quali luoghi è
possibile trovarne traccia? Quale ingegno fu capace, insieme ai consigli
degli Anziani, di strutturare una cinta così estesa…senza
abitanti. Le mura circondano le città…
Bisogna aggiungere dubbi, per aprire la verità.
Ma torniamo alla ragione preminente: solo Velzna conteneva i dati culturali,
religiosi e politici per poter meritare la distruzione totale; la ILION
italica; il cui nome è rimasto nella collina denominata Vietena,
presumibilmente conserva una degradazione di VEL-s-na/ VEL-t-na/ VEL-z-na,
attraverso la varianza *FET-t-na > *FIE(T)-te-na < *VIE(L/T)-te-na.
Anche Alcune parole possono guidare la ricerca, ad esempio il ricordo
di un vecchio del luogo, che riporta la tradizione secondo cui da quelle
parti comandava un RE BUTTANO; se uno conosce la fonetica, ci intravede
subito *BUR-ta-no (RT > TT), ossia cogliamo un ricordo vago, ma ammissibile
del PUR-t-ne etrusco, del ‘PR-i-ta-no’, o del quasi simile
termine licio, fortemente degradato, che contiene quella carica, ma così
ridotta dal parlante, che solo una buona confidenza con la glottologia
può restituire; si tratta dei PD-d-ne-MMis, dove la radice monosillabica
PUR/ PR ha subito una consonanza/ assimilazione divenendo *PUD-de-neFFis,
infine si è contratto in *PD-de-neFFis; se ora togliamo l’invasione
del digamma con i suoi fedelissimi coadiutori (F > b, f, m, p, mp,
ph, mph, u, v, w), ecco i ‘P()R-i-ta-ni’ ripuliti con *PUR-te-neis;
come vedete BUT-ta-no < *PUR-ta-no non si differenzia molto, anche
confrontandolo con POR-se-n-na < *PUR-s-e-n-na > *BUT-te-n-na; era
una carica politico-militare, non il nome proprio che si ritiene tale.
Tornando al problema, davanti a quella valle ormai vuota, senza più
alcun segno, qualunque orvietano, guardando giù, dovette convenire
che una simile contrada non poteva appartenere che a lui, e a tutti gli
altri della sua città; sempre che non fossero stati belligeranti
insieme con Velzna, ma che subito dopo, in tempo utile per non correre
rischi definitivi, abbiano dato in qualche modo mano ai Latini per la
soluzione finale, divenendo subito dopo padroni dello spazio rimasto vuoto.
Si leggano soltanto i due pezzi riportati qui sotto, tratti da “La
Storia”; con poche parole spiegano le fratture della verità,
dove si annida la ferocia ed il sangue taciuto; quest’opera è
nuova, ma racconta cose antiche, impercettibilmente sfuggite al silenzio,
opera stampata a cura de “la Repubblica”; una particolare
attenzione vada al “Centro Federale Volsinii”; che sarà
stato mai, se non il luogo dove si radunavano le ‘Dodici città’,
magari a Vietena, ognuna tributaria di qualche scultura…
Volsinii.
Da “La Storia”, V. 3, pag. 201: “Le conseguenze della
vittoria romana furono disastrose per l’indipendenza politica degli
Italici. Gli Etruschi, quando i loro focolai di resistenza si spensero
nei territori di Rusellae e Volsinii, chiesero e ottennero, nel 294, trattati
di pace della durata di 40 anni. L’iniziativa partì dalle
città di Perugia e Volsinii, e alla fine vi aderì anche
il loro CENTRO FEDERALE VOLSINII.”
Essendo il ‘Centro’ considerato a parte, occorre pensarlo
indipendente; magari ubicato nel punto più alto, oppure sull’isola
Bisentina (*FISH-e-l-t-na), come ritengo.
Pag. 214: “Nel 265 i Romani, chiamati in aiuto dagli aristocratici
di Volsinii (nei pressi di Orvieto), che ne erano stati espulsi dopo il
sopravvento che vi avevano preso i liberti, espugnarono la città,
la distrussero, trasferendo la popolazione in una nuova sede, a Volsinii
Nova (Bolsena), e ridiedero la preminenza agli stessi aristocratici dopo
aver crocifisso i liberti (nell’area sacra di Sant’Omobono
a Roma, dove sorgevano i templi della Fortuna e della Dea Mater, fu eretto
un monumento al trionfatore M. Fulvio Flacco, singolare per le numerose
statue di bronzo, ca. 200, ivi trasferite come bottino fatto nel tempio
FEDERALE di Fanum Voltumnae, e delle quali si sono identificate le impronte).”
Non credo che i Latini si siano preoccupati dei rifugiati, di recuperare
gli aristocratici, con il trasferirli poco più sotto, verso il
lago, erigendo pure nuove mura, persino più estese della nuova
città, o permettendo che lo facessero i fuggiaschi; dopo aver rotto
e snaturato ogni indizio culturale nella valle, penso che saranno invece
partiti con ogni tipo di bottino, lasciando al tempo l’inizio di
nuova agglomerazione spontanea, in una zona ormai con dimore diroccate
e macigni rotolati per campi e sui fianchi delle colline; zona debole;
senza possibilità di creare ulteriore minaccia alla dominazione
latina. Che se ne facevano di quelle mura? Per giunta costruite per una
città tanto piccola? Si sbaglairono?
Inoltre, “Nei pressi di Orvieto”, non significa a Orvieto;
erano scappati; si saranno accampati tra le colline, in dimore di campagna:
ed il bottino nel tempio federale, rimanda al “Centro Federale Volisinii”.
Come si vede, si tratta di un intreccio tra convenienza e leggenda; che
quell’area distrutta dovesse appartenere ormai ad un popolo lì
accanto, fornito di mezzi per difendersi, non costituisce una grande scoperta:
una zona devastata, vuota, specie in tempi senza leggi come allora, veniva
subito occupata dal più forte dei vicini; chi poteva opporsi; se
poi furono alleati dei latini…
Stando alla realtà ancora conservata, occorre dunque partire proprio
dalle mura; capire con una foto aerea la loro ampiezza: circondava un
pari agglomerato di abitanti? O era stata progettata in modo fantasioso
per i quattro rifugiati sopravvissuti? O non era stata portata a termine?
O distrutta subito dopo? In tempi medioevali? Per quale ragione?
La strategia essenziale resta sempre quella di penetrare al di sotto nel
terreno, compreso nello spazio delimitato dalle mura; trarre inoltre quantità
sicure di terreno, come fanno con cilindri di ghiaccio ai poli, per determinare
le epoche attraverso lo studio del deposito di elementi biologici, trarre
quantità sicure di terreno, non contaminate da manovre improprie,
per individuare sostanze conservate dal tempo della loro collocazione,
in modo che non si facciano parlare le pietre, non adatte a ricordare
una simile operazione. Qualche strato ancora intatto lo si troverà
di sicuro. Uno sguardo aereo lo dedicherei sempre a tutta la zona; potrebbero
comparire fondamenta qua e là tra gli alberi; sosterei con particolare
attenzione sull’isola Bisentina, potrebbe riservare sorprese, restituendo
forme di edifici cancellati; frammenti diffusi qua e là; anche
tra le mura ancora esistenti.
Per ogni cosa sarà necessaria una ricognizione minuziosa, affidata
ad esperti obbiettivi, lontani da rivendicazioni improprie ed assurde;
liberi dall’ipse dixit; perché costoro, persone sempre degnissime,
sono bloccate dalla fede, dalla convinzione che, se l’ha detto qualcuno
fornito di larghe famosità, non può mai mettersi in dubbio.
Bisogna superare la condizione di zona sicuramente ritenuta interdetta,
data l’enormità della distruzione da affidare al silenzio;
e la colpevole consapevolezza dei Latini, di aver cancellato la matrice
della propria civiltà, rappresentata da Roma e da Numa; questa
affermazione può creare qualche perplessità, ma se andiamo
in Oriente, e cerchiamo il vero significato dei nomi appena riportati,
ecco che possiamo individuare come la prima derivasse dal dio RA/ RE/
RI/ RO/ RU ‘Sole’, la seconda da una variante fonetica RU
> < NU; per ciò andiamo a leggere l’articolo di Onofrio
Carruba, tratto da “Studi micenei ed egeo-anatolici”, F. V,
pag. 30/41, titolo “ANATOLICO RUNDA”; qui vengono esaminate
le varianze: in eteo geroglifico abbiamo Ru(n)ti(ja), ma P. Meriggi la
riporta come Ruwa, Ruwatja; in greco, più tardi, venne detta nell’onomastica
Ronda (< *RU-wa-n-tha, etr. RA-ma-tha, RU-v-Fial, RU-tias); espone
nell’articolo le proprie opinioni, elenca vari composti (Tarhunta-radu/
(*Rawatu/ Ruwanta), U-na-radu; Pijama-radu, SUM-ma-radu, U-ruwanta…;
a pagina 39 vi è un’indicazione notevole: “ruwan in
altri termini è lo stesso dell’eteo cuneiforme nuwan/ numan
che si è dissimilato rotacizzando l’iniziale secondo il modello
di laman da nomen, come del resto è avvenuto per es. in maruha
da manuha….”.
Chiunque capisce la evidente valenza RU-wa < > NU-wan/ NU-man, RU-ma/
NU-ma; così scopriamo chi furono i primi dominatori della Roma
primeva, abitavano fianco a fianco con quelli che si definivano Numani,
e che vennero poi detti Sabini.
Provenivano dall’Oriente; furono preminenti rispetto agli altri
gruppi etnici che abitavano intorno alle sponde del Tevere, o poco distante,
compresi i Latini; le civiltà si sono sviluppate tutte intorno
ai fiumi; l’isola Tiberina avrà costituito un punto di transito;
nei colli intorno si saranno incontrate e scontrate le prime tribù;
è facile immaginare che furono i Romani e i Sabini quelli che promossero
lo sviluppo di questo centro destinato a civilizzare l’Europa; se
ne avvantaggiarono poi i Latini, i quali, ad un certo punto, misero da
parte i Romani, li sostituirono completamente, imponendo la loro lingua,
ma conservando il nome di Roma; per questo insisto nel chiamarli Latini,
anziché Romani; questi ultimi, divenuti arbitri del luogo, avevano
posto le basi da cui si propagò la successiva, irresistibile diffusione
della civiltà latina; che poi Roma significasse ‘mammella’,
‘fiume’… sono tante fantasie indimostrabili, non si
reggono su basi religiose; le città antiche derivarono il loro
nome tutte da un dio, anche il Cristianesimo fece uso di questa preferenza,
nominando molti piccoli centri con termini religiosi; ma ora si pensi
alla radice RA/ RE/ RI / RO/ RU; tutte indicano il ‘Sole’;
non bisogna sforzarsi molto per trovare questa divinità presso
gli Egizi, diffusa in varie forme; eccone alcune: vels. RA ‘colore
di RA/ Rosso’, RA-th-lth < *RA-s-sas ‘raggiante’,
*RE-Fa > RE-a, RE-wa-tia/ RE-zia; vels. RI-l ‘soli > anni’;
RO-s-so, RO-t, RU-fus, RU-ber ‘del colore di RA’, eteo RU-wa
‘Sole’, gr. e-RU-th-rós < *RU-s-sos…
Per questo dobbiamo rimanere a RU-ma/ NU-ma (ricordando anche il NU-me,
cioè un ‘dio’), e capire perché NU-ma POmP-i-lio
< *PoFP-i-sjo (POP-i-na/ CUC-i-na ‘(luogo) del fuoco’)
chiamato ‘Sole di Fuoco’, fu accettato ad esercitare la funzione
di re; apparteneva a gruppi così affini, in periodo arcaico, che
si stimavano, ogni tanto potevano fidarsi; nonostante le continue guerriglie
tra i gruppi ivi stanziati, che si preparavano inconsapevolmente ad amalgamarsi
per formare una grande forza espansiva e dominatrice.
Alla Valle del Lago di Velzna va restituita la gloria che gli apparteneva;
ma che tuttora in molti si arrabattano con ogni mezzo per negarne l’enormità
in bene ed in male della sua dispersa esistenza.
Termino con il tradurre le seguenti iscrizioni ittite, perché conservano
tracce di comunanza con il tirseno, tratte da “ARCHIVIO GLOTTOLOGICO
ITALIANO”, V. LXXXI, F. I, 1996: a pag. 56 (12): (k)uis sagais kisari
ta LUGAL-i SAL.LUGAL=ya tarueni ‘quale segno appare (particella
connettiva) al re e regina conn. diciamo’ > “riferiamo
al re e alla regina il presagio che compare”; notare tarueni, paragonabile
con il TLE viii 11: trin frere nethunsl “taru-/*teri- > ‘dì
> recita la preghiera al dio Netuno’; a p. 59: (26) (ug)= a arhari
nu hurtiyallan her-mi ‘io conn. sto conn. coppa ho “io sto
in piedi e her > ho/ tengo in mano una coppa”; tirseno TLE 887:
Spitus Larth Larthal svalce LXIII hus-u-r mach acnanas ar-ce maniim mlace
farthne faluthras “Degli Spitu, Larth (figlio) di Larth. E’
vissuto 63 (aVils/ RI-l(s): soli > anni). Hus-/ figli cinque allevato
ar-ce/ ha. In cielo in pace. La fratria delle guardie.” A pag. 67:
(40): (SAL.LUGA)L URUKanis XXX DUMUMES ENMU-anti has-ta UMMA SIMA (k)is=
wa kuit walkuan has-hun tuppus sekanda sunnas nu DUMUMES-SU anda ziket
(s)u= us ID-a tarnas
‘La regina della città di Kanis 30 bambini in una anno has-
> generò. Così ella questo (disse): ‘Quale walkuan
has- > generai!’. Una cesta per la sporcizia riempì; i
bambini suoi dentro mise; essi nel fiume lasciò.’
Per la radice HAR < *HAS si veda anche il “Mauale di eteo geroglifico”
di P. Meriggi, a p. 42, § 52: DUMUhar-tus ‘FIGLIOdiscendente,
figlio’.
Senza contare varie altre parole, nonché nomi propri, come KA-ma-nas,
tirs. CA-m-na, TU-wa-tis > TI-te ‘TI-to’, RU-WA-tias, (
da V. Pisani, LIA, pag. 324, Retico: RI-ta-li esi KAS-t-ri mlapet “a
RE-tia e a CAS-to-re si offre”; mlapet < *mulaweti, tirs. muluveni…),
tirs. RA-ma-tha ‘Solare’, MU-wa-ta-li-n (Acc.), MU-wa-ta-li-sa
(Gen.), tirs. ME-(we)-te-le ‘Metello’ (MU ‘dio del Tempo’:
ME-se…)…; DUMU-las > *ha-ti-las ‘ha-ti ‘DO-mus/
di casa > fratello’, tirs. A-t-r-sr ‘famigliari/ fratelli’,
gr. AD-e-lPHÓs < *AT-e-los, F > PH infisso, come in DelPHoí
< *DEL-o-si ‘Lucente’, del-ó-o ‘luce >
faccio vedere’, delPHús < thêlus ‘utero’.
Ecco infine una iscrizione del luogo, velsinia autentica: (TLE, 900; cippo):
selvans sanchuneta cvera “(A) Silvano ordinatore. Per grazia.”
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